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sabato 8 giugno 2013

"Gennaro, il capitano di tavola dell'ammiraglio Rozhovskij".
Da "Rivolta", Cap. 7 "Cipango"
(Scena: Mar del Giappone, 1891; A bordo della Xenia (precedentemente "Ettore Fieramosca"" della Regia Marina delle Due Sicilie"). Nella sala da pranzo dell'ammiraglio  Rozhovskij).

Pirofregata "Ettore Fieramosca", varata a Castellammare di Stabia, 1851

"Il tavolo della sala da pranzo dell’ammiraglio era apparecchiato per otto.
Alekseij Vladimirovič sedeva a capotavola con mademoiselle Murakami Ruka alla sua destra e il Signor Manuil’skij, professore di Civiltà Orientali all’università di Pietroburgo, alla sua sinistra. All’altra estremità sedeva il capitano con ai due lati il quartiermastro e il terzo ufficiale. Ai posti centrali sedevano Vladimir Vladimirovič, nipote dell’ammiraglio e cadetto della marina imperiale, e il dottor Michajlov, il medico di bordo.
Gennaro, il cuoco personale dell’ammiraglio, entrò in sala con un piatto di Capodimonte fumante: “Ammiraglio carissimo, gentile signorina, egregi signori…” disse con tono appena teatrale, puramente napoletano “… Bucatini do gravunaro in… variante Kamčatka “.
L’ammiraglio sporse il mento, ammirò la vista, assaporò il profumo, poi ringraziò Iddio per avergli messo, tanti anni prima, Gennaro sulla sua rotta.
“Potessi disporre di queste creature da sogno nella mia Naaapoli, diventerei famoso in quaaattro e quaaattr’otto, caro ammiraglio” sorrise il cuoco abbracciando tavola e commensali . “Bucatini do gravunaro in… variante Kamčatka, pensate un po’, lì a Naaapoli, nessuno sa dove sta di casa ‘sta Kamčatka e penserebbero che si tratta di una solenne bufala, ‘na fregatura ‘nsomma, ma poi una volta assaggiaate queste delizie… porterebbero in trionfo mee con tutti i graanchi ‘n coppa vaa” declamò in un incerto francese inframmezzato di espressioni napoletane. 
 “Ammiraglio cariisssimo, io non ho fatto nieente, han fatto tutto looro” aggiunse indicando i giganteschi granchi che campeggiavano sui bucatini”. 
 Vladimir Vladimirovič, eccitato come sempre quando Gennaro si “esibiva” , esclamò: “Ma questa è una novità assoluta”.
“E’ proprio così… signorììì bello”.
“Una sorpresa, prima di tante altre sorprese… eh Gennaro?”.
“Esattameente, caro il mio ammiraaglio. Una volta a terra chissà cosa vi capiterà di mangiaare… ne ho sentite di cotte e di crude su cosa mangia il popolo del sol levante… iammo va”.
A quel punto l’ammiraglio ritenne opportuno tradurre a Mademoiselle Murakami: “Mademoiselle, il nostro Gennaro è, in un certo senso, profondamente inquieto per la presunta, addirittura estrema a suo dire, “originalità” della cucina giapponese. In sostanza non ha idea di cosa ci toccherà mangiare nei prossimi giorni”.
La donna portò una mano davanti alla bocca, rise con moderazione, guardò curiosa Gennaro quindi, invece di rispondere, accennò un leggero inchino e annusò il profumo dei bucatini.
“Caro ammiraglio, ho solo aggiunto queste meraviglie dell’oriente russo alle olive di Gaeta, alle acciughe di Portopalo, ai capperi di Salina, all’olio dell’Etna, a un po’ di aglio, sale e, in fundis, a del peperoncino di Diamante. Poi ho sdraiato il tutto su dei bucatini di certi miei amici di Benevento… i Rummo, che da cinquant’anni tirano della pasta che è una delizia”.
“Gennaro è il mio miglior medico” fece l’ammiraglio a Mademoiselle Murakami “lui cucina fantasia, è un ottimo propagandista e, come potete ben notare, anche un uomo di spettacolo”.
“Ammiraglio carissimo, voi siete troppo buuuono”. 
“Gennaro mi cura” disse indicando i bucatini “dal 1863.  Ebbi la fortuna di incontrarlo nel ’54, durante una delle crociere nel Regno delle due Sicilie. A quei tempi, caro Volodia” guardò il nipote “ero in forza nella Flotta del Mar Nero”.
Il cuoco assentiva vistosamente.
“Gennaro mandava avanti una piccola osteria dalle parti di Santa Chiara”. 
“Ah, che tempi” sospirava il cuoco.
“Andavo in giro in incognito con alcuni amici napoletani: Ercolano, Pompei, Capri, il Vesuvio e un giorno capitai nella sua trattoria… furono scintille a prima vista”.
Gennaro sorrideva.
“Gli chiesi di diventare seduta stante il mio cuoco personale e di viaggiare il mondo”.
Gennaro annuiva.
“Non accettò subito. Si inchinò e mi disse: “Ci penserò, Eccellenza e vi farò sapere. Vi farò sapere senz’altro” poi, sorridendo, aggiunse “se Dio vuole… si vedrà”. Non capii tutto il panegirico ma mi piacque come recitava”.
“Maronna mia non potevo, non potevo lasciare tutto in quattro e quattr’otto, caro il mio ammiraglio” disse Gennaro “a Napoli stavo bene, la gente era allegra e o ‘Re era un bravo guaglione. L’Eccellenza vostra è sempre stato un gran signore, ma non potevo lasciare tutto in quattro e quattr’otto”.
“Diventò il capitano della mia tavola dopo il crollo del regno delle Due Sicilie” riprese l’ammiraglio.
“Ma come potevo stare più a Naaapoli… Signorììì? … dove non eravamo più padroni in casa noostra?”. 
L’ammiraglio annuiva.
“Re Ferdinando, nonostante i suoi errori, era un uomo onesto ed aveva il senso dello Stato. Il vero cancro del regno sono stati quei fetieenti dei nobili e dei militari, inetti e vanitosi, e un’accozzaglia di rivoluzionari”, utili idioti,  marionette di Cavour, la malefica volpe, e dei suoi burattinai… gli inglesi, caro il mio ammiraglio… care le mie Eccellenze”.
Il capitano Sablin guardava il cuoco con ammirazione.
“I Borboni sono svaniti come nebbia al sole per colpa dei tanti traditori nella loro stessa famiglia e di pochi sedicenti rivoluzionari… non per la spinta fasulla di un migliaio di camicie rosse, spesso lacere”.
Volodia, l’aveva capito da un pezzo, voleva bene a quello strano uomo sempre allegro, che sapeva sdrammatizzare sempre e aveva una parola giusta per ogni situazione.
“Dov’è finito l’oro della Banca del Regno a Palermo? E quello di Napoli?” continuò inarrestabile Gennaro . “Se lo sono messi in tasca, se lo sono ammuccato sentite a ‘mme. Noi delle Due Sicilie avevamo una moneta forte, non eravamo indebitaaati come i piemontesi, tenevaaamo  industrie fiorenti e, tutto sommato, non ce la passavamo male”.
“Vero” confermò l’ammiraglio, “a Napoli si respirava un gran bell’ambiente”. 
“Hanno soprannominato Re Ferdinando ‘u Re Bomba… e Vittorio Emanuele? Come dovremmo chiamare quel cornuto… mi perdoni Eccellenza…  quel criminale con tutti gli squartamenti e ammazzatine che ha ordinato? A Pontelandolfo, a Casalduni e in vent’anni di ribellioni, il ressavoia”, lo disse con disprezzo, “ha fatto molti più morti di mille e mille Re Bomba. Dopo che eravamo stati aggrediti, dopo che avevano distrutto il nostro mondo cosa potevamo fare se non scappare, emigrare?”.  Gennaro si fermò all’improvviso, si aggiustò il cappello da cuoco, bevve un sorso d’acqua, si calmò, poi disse: “Scusatemi, signori, vi ringrazio per la pazienza”.
“Grazie, Gennaro” disse il capitano Sablin.
Il cuoco gli sorrise, portò una mano sul cuore e chinò, leggermente il capo. 
“Comunque sia”  riprese l’ammiraglio,” due anni dopo l’annessione ricevetti una missiva da Gennaro con scritto, semplicemente “Dio vuole!”.  Dopo pochi mesi divenne il capitano della mia tavola… per cui addio a borsch, rybnaia solianka, vatrushki perché la sua è una cucina gustosa ma leggera, in poche parole capisci quel che mangi e non si viene confusi da salse, salsine e complicazioni francesi.  Il risultato di questi ventotto anni di cura me lo ritrovo tutte le mattine davanti allo specchio. Ma adesso, vi prego, cominciamo… i bucatini aspettano”.
Gennaro scrutava ogni minima espressione.
Una smorfia strana, mista a sorpresa, attraversò il viso di Mademoiselle Murakami.
Il piccolo Volodia si era già avventato sul piatto. 
Il signor Manuil’skij masticava cauto. 
Il Signor Sablin assaporava soddisfatto.
Il quartiermastro e il terzo ufficiale apparivano a disagio di fronte a gusti così insoliti.
L’ammiraglio arrotolò una forchettata, ne valutò colore e profumo, poi l’addentò e masticò lentamente. Dopo alcuni secondi inghiottì, posò la forchetta, si passò il tovagliolo sulle labbra, prese il bicchiere di “Greco di tufo” e invitò i commensali a brindare alla salute di Gennaro".


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