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sabato 16 marzo 2013

"Django"
... non è un film sul razzismo, ma sul Potere.
Non è un film in bianco e nero (scusate il banale gioco di parole), ma un film sviluppato, senza slogan, su varie tonalità di grigio.

Django s-catenato
Nello sviluppo della storia incontrerete un latifondista ("disinibito", crudele e alla fin fine idiota) un maggiodomo negro (scaltro e arrogante) più carogna del suo padrone bianco, una bellezza nera che non ci pensa due volte a accomodarsi al tavolo (e stendersi sul divano) del potere, degli omuncoli (bianchi) tanto brutali quanto ignoranti (Tarantino gli mette in bocca solo grugniti e mugugni), ed un professore tedesco che è un capolavoro con la Parola e, quindi, con la Logica (in fin dei conti arriva dalle parti di Kant e di Hegel).

Il personaggio principale, Django, vive di luce riflessa. 
Senza l'atto creativo, l'opportunità offertagli dal professore tedesco (dal disarmante ingegno e le giuste traiettorie) non esisterebbe, continuerebbe a restare incatenato al carro degli omuncoli (bianchi).

Il finale (gigionesco) in cui Tarantino ci scaraventa addosso decine di morti ammazzati, sangue a gogò, ed arti spappolati da un diluvio di pallottole indicano (forse) l'intimo orrore che il regista prova per il genere umano. 
180 minuti spesi bene.
Il film mi ha ricordato Bagdad Café, del 1987, del regista tedesco Percy Adlon (stupenda Jevetta).
Come l'opera di Adlon, anche questa di Tarantino ha un vago sapore missionario e non è, di sicuro, un film antirazzista.

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